piccolo drago

1 Aprile 2011 0 Di Rosanna Prezioso

La zia adora imbalsamare gli animali. Per la sua arte predilige i rettili e in modo particolare lucertole e ramarri. Qui sul Gargano ci sono lucertole bellissime, dal dorso verde e rosso mosto, i ramarri invece sono di un incredibile verde smeraldo che vira al turchese. Sul comò della camera da letto, tutta bianca e immacolata, tra l’arcangelo Gabriele armato di spada che schiaccia il drago e un mite San Giuseppe, entrambi protetti da fragili campane di vetro, troneggia un grande ramarro colto nell’atto di attaccare. A suo modo è un piccolo drago pure lui.
L’ho vista quando li prepara. Se li fa catturare dai ragazzini qui intorno che ci mettono un attimo a prenderli. Li incide sul ventre e li svuota, poi li riempie di ovatta imbevuta di una soluzione di cui non mi ha voluto svelare il segreto ma che dall’odore sembra alcool più qualche altra cosa che profuma. Quindi li modella con le mani per dargli una forma dinamica, come se fossero vivi. Li lascia asciugare per un po’ e quando è il momento li completa fissandoli su di un sasso, un pezzo di tufo o una tavoletta di legno. A questo punto viene la parte che mi piace di più: per l’occasione ho il permesso di frugare nel cassetto del tavolo da lavoro del nonno dove, suddivise per colore in tanti piccoli scomparti, ci sono le pietre preziose dove lei sceglierà gli smeraldini da posare sul rettile al posto degli occhi e un piccolo rubino per la bocca.

E’ un cassetto al cui interno potrei guardare estasiata per ore anche senza toccare niente. Quei colori che mandano scintille e che esistono solo lì mi danno una gioia paragonabile solo a quella che provo fissando il mondo attraverso una scheggia di cristallo che papà mi ha procurato recuperandola dal relitto di una nave. Non so che cosa fosse all’origine, so solo che attraverso quel magico pezzo di vetro tutto intorno a me assume i colori dell’arcobaleno, come in una fiaba.
Nel cassetto, proprio all’inizio, c’è un’altra cosa che mi incuriosisce, uno zampetto di lepre. Il nonno nicchia sempre un po’ quando gli chiedo a cosa serve, ma un giorno lo vedo che, dopo aver limato un anello, usa lo zampetto per spingere la polvere d’oro verso il cassetto e ve la fa cadere. Allora mi spiega che lo zampetto serve proprio a quello, come uno spazzolino, ma che è anche un portafortuna. «Quando di polvere ce ne sarà abbastanza», dice, «la fonderò per fare un lingottino».

Mi piacerebbe così tanto assistere alla fusione dell’oro, ma su questo punto il nonno proprio non ci sente. Lui solo scende nella cantina che sta proprio sotto il pavimento della stanza laboratorio e che si raggiunge attraverso un’angusta apertura chiusa da una botola. è lì che avviene l’operazione. Ma siccome per scendere c’è da fare una stretta e ripida scala a pioli, mi si dice che potrei farmi male. Non credo sia solo per quello, c’è dell’altro sicuramente ed è proprio questo che mi spinge a insistere. «Non lo dirò a nessuno, promesso», dico istintivamente sperando di convincerli. Finché un giorno il nonno dà il permesso e papà mi ci porta.
Nessuno parla. Nel buio quasi assoluto, dato che non c’è luce elettrica, solo il nonno sembra orientarsi senza problemi. accende il fornellino a gas, vi posa sopra un pentolino in cui ha versato la polvere d’oro che poco a poco inizia a illuminarsi diventando prima rossastra e poi incandescente. A questo punto toglie il crogiolo dal fuoco afferrandolo di lato con una pinza e versa l’oro ormai liquido in uno stampino. Il bagliore del metallo gli illumina il viso incorniciato dalla barba e dai capelli bianchi. A me sembra un mago, un mago buono. Nella stanza c’è un forte odore di terra e di muffa che non scorderò tanto facilmente.

L’appartamento, come tanti altri a Monte Sant’Angelo, ha l’ingresso a piano terra, su una pedonale tutta gradini larghi che scendono dolcemente, mentre dalla parte opposta, dove c’è la camera da letto, dal balcone ci si affaccia su una carreggiabile che scende ripida e si è al secondo piano. Da lì si può ammirare il mare che sale alto nel cielo tanto che pare di poterlo toccare. La vita di tutti i giorni si svolge solo nella zona a piano terra, nella camera da letto la zia ci va ogni tanto solo per dare la caccia a qualche mosca che si è permessa di posarsi sul suo copriletto immacolato. La zia odia le mosche, le afferra al volo con la rapidità di un gatto e le sfrega contro il grembiule per finirle. Non vorrei essere una mosca.
In realtà lei mi adora, dato che non può avere figli e io sono la sua unica nipote. Ma più che esserle affezionata io sono incuriosita: è una donna buffa, bassa, dai fianchi larghi e un bel viso molto espressivo. Ha la pelle molto chiara e i capelli molto scuri. Quando usciamo per lo struscio serale o per andare in visita da qualche parente si veste tutta di nero e mette i sandali col tacco. Poi, per tutta la strada si lamenta che le fanno male i piedi. Le lamentele per il mal di piedi si alternano a degli ordini appena sussurrati che mi lancia velocissima: «Non salutare a quello», «Non guardare a quella», «A quella puoi sorridere. Saluta!».
Io eseguo senza capire bene a cosa serva tutto questo “sì e no”. Lei mantiene sempre la stessa faccia compunta che ha messo su prima di uscire. Io mi trattengo dal ridere perché capisco che non si deve fare, ma di tutto il resto non capisco niente, a cominciare da quegli abiti neri e quelle facce contrite da cui mi sento circondata.

Il lato bello è quando la zia decide di fare la pasta. La guardo come ipnotizzata mente fa scorrere le orecchiette da un dito all’altro in maniera così veloce che non riesco neppure a capire la sequenza dei movimenti. Per farmi piacere ne esegue una al rallentatore spiegandomi come si trascina prima il pezzetto di pasta con la punta arrotondata del coltello e poi con un gesto secco lo si rivolta in modo da formare una specie di cappellino. La cosa pià importante, mi dice, è che dalla parte convessa la pasta risulti ruvida in modo da trattenere meglio il sugo.
A volte fa anche la pizza e per farmi contenta destina un pezzo di pasta alla pizza dolce, quella solo per me, che poi è una focaccia condita con buonissimo olio d’oliva e una bella spolverata di zucchero. Tocca a me portare tutte e due le pizze, poste su un asse di legno stretta e lunga, fino al forno, qualche rampa di gradini più in giù. Mi mette l’asse sulla testa e io cerco di tenerla bene in equilibrio. Quando vado al forno incontro sempre altri bambini che, come me, portano le pizze o il pane a cuocere. Un po’ alla volta facciamo amicizia e così un giorno mi chiedono se voglio vedere il morto. Naturalmente rispondo di sì e loro mi portano in una stanza a piano terra dove su di un tavolo coperto da un lenzuolo bianco è disteso il defunto. Così vedo da vicino il mio primo morto. Non penso a niente, solo mi fa impressione che sia così immobile. Nessuno può rimanere così immobile, nemmeno quando dorme. Ci facciamo rapidamente il segno della croce e usciamo sfogandoci correndo e urlando.

Tutte le estati, come arrivo a casa della zia ancora stravolta dai tornanti in pullman che mi hanno fatto stare male per tutto il viaggio, lei mi fa trovare una mozzarella fresca portata apposta per me dal pastore, e dei pomodori buonissimi. Mi taglia una grande fetta di quel pane nervoso e un po’ acidulo che presto imparo ad amare, e mi sento subito meglio. Un’estate che la mozzarella non era lì ad aspettarmi gliela chiesi e lei disse, contrariata, che andavo lì più per la mozzarella che per lei. Infatti era vero e dentro di me mi vergognai moltissimo. Ma non potevo farci niente se quella zia era troppo strana, troppo diversa perché mi ci potessi affezionare.
Trent’anni dopo, quando per la prima volta venne da noi su al nord, già dalla macchina, vedendo la campagna tutta verde, esclamò: «Dio mio quant’è bello qui, quanto mi piace tutto questo verde, ma è davvero sempre così! Mi piace tanto che vorrei morire qui». E così fu, infatti. Tempo una settimana, giusto quanto bastava per assistere al matrimonio dello zio, le venne un’emorragia cerebrale e spirò. Prima però, dopo che la portarono in ospedale, rimase diciassette giorni in coma e per quasi tutto il tempo fui io a farle compagnia. Restavo lì per ore a spiare ogni sua minima mossa, degli occhi o della bocca, nella speranza che si svegliasse. Ma non accadde. Ogni tanto da un occhio le scivolava giù una lacrima e allora anch’io mi mettevo a piangere come una fontana. Piansi tanto anche al suo funerale, e non solo per le mozzarelle che ormai non gustavo più da anni. Piansi per lei, piansi per una pezzo importante della mia vita che se ne andava per sempre e che d’ora in poi forse avrei ritrovato solo addentando una mozzarella, ma di quelle buone però.

(Dai racconti inediti “Viaggi e assaggi” di Rosanna Prezioso)