un sacco di arachidi

4 Marzo 2011 0 Di Rosanna Prezioso

Le prime arachidi ce le portarono gli Americani. Erano una rarità. Noi bambini passavamo ore a rompere con un sasso i noccioli delle susine e delle albicocche per procurarci la materia prima per il croccante. Insistendo un poco la mamma, o la nonna o la zia, accettavano di prepararcelo. Dopo aver messo qualche goccia d’olio nella padella di ferro annerita dall’uso, vi versavano qualche cucchiaiata di zucchero e lo facevano fondere. Appena lo zucchero iniziava a imbiondire vi distribuivano sopra i noccioli e quando tutto scuriva fino al marrone, versavano il croccante su un piatto appena bagnato. Noi aspettavamo impazienti che si freddasse e poi ce lo dividevamo, a pezzi trasparenti e duri come schegge di vetro.

Quando andai dai miei parenti sul Gargano, in Puglia, una delle cose che mi piacquero e mi colpirono di più fu l’abbondanza di frutta secca. Nelle case dove andavamo in visita ne facevano trovare sempre dei sacchi pieni dove ognuno attingeva a manate. C’erano soprattutto mandorle e pistacchi, ma anche fichi secchi e ancora fichi secchi arrostiti con all’interno infilata una mandorla. La cosa piaceva a grandi e piccini, tutti tuffavano le dita nei sacchi senza farsi pregare e sgranocchiavano con gusto.

Quando arrivai a Milano ed ebbi il mio primo impiego in una ditta d’import-export la cosa che mi piacque di più fu che accanto alla scrivania dove troneggiava la mia Olivetti avevo un sacco pieno colmo di arachidi. Mi sentii subito “a casa”. Chiesi a una collega se si potevano assaggiare e lei mi disse di accomodarmi. Quello era il “campionario” e ormai non interessava a nessuno. Il principale cliente, la Pavesi (sì, proprio quella dei “pavesini”) era ormai acquisito da un pezzo. A lei andavano anche le albicocche e le pesche secche che venivano utilizzate per i nuovi biscotti farciti alla frutta.

La ditta, di ebrei iracheni, era a conduzione familiare e ben presto divenne in certo qual modo anche la mia famiglia. Senza muovermi dall’ufficio partecipai a una cerimonia di circoncisione, a un matrimonio in lungo, e a un gran numero di pranzi, alcuni dei quali la domenica, fuori porta, in una trattoria dove per la prima volta scoprii le dimensioni della vera fiorentina e capii che non sarei mai stata in grado di finirne una intera da sola.

In seguito ebbi molti amici ebrei oltre che datori di lavoro. Ci si capiva. Forse per il fatto che anche loro erano abituati a sentirsi senza radici come me, oppure con troppe radici che bisognava sempre cercare di mettere d’accordo. Come loro parlavo più di una lingua straniera ma non abbastanza bene l’italiano che mentalmente dovevo sempre tradurre dal dialetto. La mia amica del cuore, dalle radici un po’ turche, un po’ greche, un po’ francesi e chissà che altro ancora, m’invitava a casa sua il sabato o la domenica pomeriggio per il tè. Andavo pazza per i ravioli di zucca al forno che sua mamma preparava in quell’occasione.

Stupidamente non mi feci mai dare la ricetta e oggi vado provando e riprovando per ottenere quei fagottini perfetti, dal sapore né troppo dolce né troppo salato, né unti né asciutti, che si scioglievano in bocca lasciando un retrogusto che ti obbligava a mangiarne altri.

La pasta, ritagliata a forma di losanga, era molto simile alla pasta frolla. Il ripieno era costituito da una crema di zucca non alterata da spezie o aromi, delicatissima e dolce quanto può esserlo una buona zucca mantovana lasciata asciugare nel forno.

(Dai racconti inediti “Viaggi e assaggi” di Rosanna Prezioso)