caro michele

23 Luglio 2014 0 Di Rosanna Prezioso

    tramonto michele Caro Michele,
    Annamaria mi ha chiesto di scrivere qualcosa su di te ed eccomi.
Ci sarebbe tanto, troppo da dire e so che ti annoierei. Cercherò di essere sintetica per quanto mi è possibile sebbene come sai ho la tendenza a farmi prendere la mano dalle parole.
   Anzitutto è stato uno shock sapere che non ci sei più. Nel mondo ci sono stragi e massacri tutti i giorni ma le morti lontane più di tanto non ci toccano, quella di un amico sì, anche se da anni non ci si incontrava più. Sparsi nella città, come spesso accade a Milano, ognuno faceva la sua vita.
 Contrariamente a quello che pensavo da giovane, si può essere felici anche quando giovani non lo si è più se si è sani, amati e innamorati. È così che si dimentica di dover morire. Ma poi muore un amico carissimo, magari anche più giovane, e ci si rende subito conto di essere in lista d’attesa per il prossimo turno.
    Con me facevi il sergente, intendo avaro di lodi e prodigo di critiche e rimproveri, che però su di me avevano scarso effetto dato che già mio padre, militare per davvero, era così. Del resto la tua presenza costante era una conferma che anche tu ci tenevi alla nostra amicizia sebbene mi sembrasse d’avere assai poco da offrire in cambio a parte l’uso della mia cucina quando ti garbava e qualche pasto cucinato da me che tu regolarmente criticavi. Però eri generoso nel ricambiare invitandomi a cena in uno dei tuoi ristoranti preferiti che in genere erano i migliori di Milano.
   Per quanto ci siamo frequentati? Dieci, quindici anni? Non lo so più, non ho mai avuto molta dimestichezza con le date, ma ricordo bene le nostre serate. Da single irriducibili ci raccontavamo le nostre avventure, e ne avevamo da dire, soprattutto tu che più che assatanato eri curioso. Raccontavi di questa o di quella con il distacco di uno scrutatore di seggio elettorale, io invece altalenavo tra humor e disperazione. Non ho più avuto un amico così. Le confidenze di questo genere tra donne non sono mai abbastanza obiettive e rischiano quasi sempre di diventare lagnose. I tuoi aneddoti invece erano spassosissimi, e grazie ai tuoi commenti tranchant lo diventavano anche i miei.
   A me dicevi tutto, anche le rabbie e le frustrazioni professionali, e io con te facevo lo stesso. Forse la vera amicizia è proprio questo, spogliarsi di ogni finzione per apparire migliori, cosa che troppo spesso si fa nell’amore per paura di scalfire l’alta opinione che l’amato o l’amata ha di noi. Ed è dura quando arriva la resa dei conti. Nella vera amicizia questo non succede mai. C’è uno scambio continuo che può interrompersi iritr michele b:nn qualsiasi momento ma si resta amici per sempre e rivedendosi è tutto com’era, nulla è cambiato.
   Ti ho visto andare via felice quando hai incontrato la donna dei tuoi sogni, quella che ti ha fatto innamorare ed è rimasta la tua compagna per la vita. Ho condiviso la tua gioia senza rimpianti perché mi avevi dato già tanto e non potevo chiedere di più. Neppure adesso tu mi manchi perché il tuo ricordo è e resterà dentro di me.
   Ho trovato tra le mie carte uno schizzo a inchiostro che una sera dopo cena buttasti giù per farmi capire come si poteva dipingere di getto, senza un progetto ma lasciando che il cervello guidasse la mano. Era la pagina di un lookbook di Estée Lauder. Tu, grazie al tuo innato senso grafico, con un tratto di Rapidograph e qualche goccia di Ecoline ne facesti subito un tramonto, un quadro astratto, la copertina di un libro o un poster pubblicitario.
   Altre volte, invece, ti divertitvi a fare il tuo ritratto, teste d’uomo che ti piaceva chiamare così anche se la somiglianza non c’era affatto. Del resto era un tuo vezzo dire che non sapevi disegnare. Ne ho trovate due di quelle teste, firmate e datate, segno che le consideravi lavori finiti.
   Con il tuo brutto carattere ti sei fatto tanti nemici, ma forse è stato un bene. Per te che odiavi la banalità tutta fatica risparmiata. Stare con te non era mai tempo perso. Non ti ho mai sentito pronunciare una frase che fosse meno che intelligente e originale. E questo indubbiamente alzava il tono della conversazione. La tua schiettezza poteva essere bruritr michele coltale ma incuteva rispetto e induceva ad altrettanta sincerità. Se alle nostre feste o tavolate per caso finiva qualcuno che proditoriamente “se la tirava” spariva presto perché capiva d’essere finito sul continente sbagliato.
    Quante volte abbiamo cucinato! Con i fornelli eri bravo quasi quanto lo eri con i pennelli. Ti piaceva la cucina francese e te ne uscivi con ricette che non conoscevo e forse mai avrei conosciuto senza i tuoi insegnamenti. Come le pommes de terre soufflées che una volta ti sei messo a fare senza dire una parola: padella, olio, patate affettate grosse e dopo una prima frittura via con la seconda ed ecco il miracolo, ogni fetta si gonfiava come un palloncino che sotto i denti scoppiava sciogliendosi.
    Da te ho imparato come si fa il ragù, quello vero, che la carne macinata deve lentamente rosolare fino quasi a bruciare prima di congiungersi con la salsa di pomodoro. Richiede tempo, lo so, ma tu eri un purista, pretendevi che facessi il pesto con il pestello e potevi dissertare per ore sulle differenze di profumo e sapore tra i diversi tipi di basilico. Chiaro che preferivi quello ligure con la fogliolina piccola e tenera rispetto a quello con le foglie grandi che sa sempre un po’ di menta.
   Anch’io ho sempre dipinto, ma quando mi portasti per la prima volta nel tuo studio rimasi a bocca aperta davanti alla quantità e alla qualità della tua produzione: intere cassettiere piene zeppe di fogli, quaderni, tele, compensati che il colore aveva reso cose vive, vibranti di rabbia, gioia, ansia, nostalgia, furore; colori inventati mai visti prima; fondi che sembravano sollevarsi, uscire dal dipinto per crescere tridimensionali. Sfioravo meravigliata le superfici: erano lisce anche se mi aspettavo di toccare sabbia, tela, erba, cemento.
  Sei stato tu a farmi capire che potevo smettere di disegnare solo per hobby. Una domenica pomeriggio, tra un rally e l’altro in tv (erano le macchine l’altra tua grande passione), notasti su un foglio delle figurine di donna che io scarabocchiavo parlando al telefono. «Queste sono belle che finite, le puoi utilizzare quando vuoi per illustrare un articolo», dicesti indicando una serie vagamente orientaleggiante. Sul momento pensai che scherzassi, ma poi imparai che certi schizzi, certi disegni “non finiti” potevano essere già finiti così, senza aggiungee altro. Sì, per me sei stato anche un maestro.
    Nello studio avevi un grande quadro figurativo, l’interno di un appartamento con una persona, credo, non ricordo bene, tutto sviluppato rosso su rosso in varie tonalità. Ti chiesi perché tenevi lì quel quadro che certamente non poteva essere tuo dato che i tuoi lavori erano sempre astratti o con qualche figura misteriosa che ricordava vagamente certi disegni che fanno i bambini.
«Perché è di papà», rispondesti. «Anche lui un tempo dipingeva».
Dissi che era molto bello e tu, quasi trasfigurandoti: «Certo che è bello. È bellissimo».
Era in uno di questi momenti che si intuiva quanto poteva esserci di tenero dietro quella tua corazza ruvida e dissacrante.
Ma adesso devo smettere perché mi sembra già di udire la tua voce baritonale che mi intima: «Prezioso basta, non farla troppo lunga!»

   Allora addio, anzi arrivederci.
   Con affetto.
   Rosanna

Michele Ketoff  (Milano 14 giugno 1946 – Milano 13 luglio 2013) ha cominciato a lavorare a soli 19 anni  come “allievo di bottega” presso un importante studio grafico milanese. Un anno dopo è chiamato  dalla Condé Nast dove contribuisce notevolmente alla creazione di Casa Vogue. Dopo questa esperienza si trasferisce a New York dove viene a contatto diretto con gli artisti e l’arte pop. Quando torna a Milano apre un proprio studio e a 25 anni inizia a dipingere per sé pur continuando la sua attività di art director. Lentamente la pittura prende il sopravvento e vi si dedica a tempo pieno anche se non perde l’abitudine di lavorare di notte.